RITRATTI/Giuseppina boschetti

di Francesca Costi

È una casa piena di ricordi quella di Giuseppina Boschetti in quartiere Lubiana; sul tavolo un album di lettere e articoli di giornale appartenuti al marito, sotto la finestra una distesa di cornici con le foto di figli e nipoti.

“È la prima volta che mi intervistano in 88 anni” esordisce Pina, come amano chiamarla amici e famigliari, “mio marito invece ne aveva fatte tantissime, era il presidente del Consorzio del Parmigiano-Reggiano, ma io non mi facevo mai vedere, ero molto discreta”.

Prima di quattro fratelli, Pina è nata nel 1934 e nella vita è stata maestra elementare. Messa sul fuoco la moka per preparare un buon caffè, con fervida memoria ripercorre per noi gli anni della guerra, rivisti con gli occhi della bimba che era negli anni ’40.

Come è stata la tua infanzia durante la guerra?

“Sono andata a scuola a 5 anni e nel 1939 ci vestivano da Piccola italiana: una camicia bianca con una sottanina blu e uno stemma del fascio. Vivevo ad Ancona all’epoca e ricordo che il Duce era venuto allo stadio a vedere noi bambini che facevamo ginnastica. Conservo ancora un libro della biblioteca “Bimbi d’Italia”, si intitola “Cammina cammina” e ho impressa nella mente la foto di Mussolini sulle mie pagelline della scuola. Noi bambini non ci rendevamo conto di quanto tutto fosse politicizzato e pericoloso, per noi tutto era una festa e ci sentivamo al sicuro. Solo da grande ho capito la gravità e l’orrore di quello che era successo”.

Qual è il ricordo più brutto che hai di quel periodo?

“Tutto precipitò quando scoppiò la guerra. Mio padre era impiegato alla Cirio di Ancona ma fu chiamato a militare e venne inserito nel quartier generale della guerra a Roma per lavorare come ragioniere. Ci trasferimmo tutti con lui, ma il 19 luglio del ‘43 ci fu il primo bombardamento della Capitale. Noi abitavamo al nono piano di un palazzo del quartiere Nomentano, l’ascensore si era bloccato, io avevo 9 anni e mi trascinavo mia sorella Ughetta giù per le scale mentre mia madre aveva in braccio il fratellino più piccolo. Scappammo nel rifugio, che altro non erano che la cantina del palazzo, stavamo tutti bene ma fu un momento terribile. Mio padre arrivò a casa a piedi dal quartier generale e subito decidemmo di partire per Parma per raggiungere i nonni materni”.

Qui le cose andarono meglio?

“Anche a Parma c’erano stati bombardamenti e quindi ci rifugiammo a Bedonia, dove i miei nonni avevano una bella casa per le vacanze estive. Lì non bombardavano ma arrivavano di continuo i tedeschi a fare i rastrellamenti, cercavano i partigiani e tutti i giovani e gli uomini del paese scappavano a nascondersi sulle montagne appena davano l’allarme”.

Sono venuti anche a casa vostra?

“Sì, più volte e mio padre insieme a mio zio si andavano a nascondere dietro la ruota del mulino, dove scrosciava l’acqua, era un ottimo nascondiglio, non si vedeva chi c’era dietro. Mio padre non era un partigiano ma era un disertore, come mio zio, se li avessero trovati li avrebbero fucilati o spediti in Germania. Quando venivamo avvisati che stavano arrivando i tedeschi, noi bambini non andavano a scuola, avevamo l’ordine di non parlare, se interpellati dovevamo dire che non conoscevamo nessuno, per sicurezza però mia nonna ci chiudeva tutti in bagno”.

Conoscevi dei partigiani?

“Certo, e anche le loro famiglie, li vedevo passare con le armi in paese ma con noi piccoli i tedeschi non parlavano. Era molto pericoloso, a Bedonia c’erano delle spie, chi aiutava i partigiani veniva segnalato e ci sono state anche delle fucilazioni ma io per fortuna non ho mai assistito. Una volta però stavo tornando da scuola e ho visto dei nazisti picchiare un giovane partigiano, era a terra e poi non ho più saputo niente di lui, ho sempre temuto fosse morto”.

Il pericolo principale erano i tedeschi quindi?

“La situazione era complicata. Una volta è venuta a casa nostra la Decima MAS con a capo un fascista di nome Umberto Bertozzi che aveva studiato con mio padre al Maria Luigia qui a Parma. Nel palazzo dove vivevamo a Bedonia c’era un partigiano, un giorno Bertozzi venne a salutare mio padre e invitò i miei genitori a cena a casa sua ma loro non andarono. Mio padre non gli rivelò mai nomi di partigiani, tuttavia mia nonna e mia mamma erano terrorizzate che i partigiani potessero pensare che fossimo spie, temevano che potessero ucciderci tutti.”

Poi è arrivato il 25 aprile del 1945, cosa ricordi?

“Eravamo ancora a Bedonia ma subito dopo la liberazione tornammo a Parma con i nonni, facendo il viaggio su una Topolino piena zeppa di persone. Molte case erano state bombardate e quindi fummo costretti ad andare in co-abitazione, non è stato un bel periodo. Venivano assegnati appartamenti abbastanza grandi per contenere più famiglie. Avevamo solo una cucina e una camera da letto e noi bambini ci sentivamo meno liberi che su in montagna, ma era la ripartenza e tutto intorno si respirava un clima di festa. Non eravamo più oppressi ed eravamo liberi di parlare senza temere ritorsioni”.

Oggi la guerra bussa di nuovo alla nostra porta, cosa provi vedendo le immagini del conflitto tra Russia e Ucraina?

“Ai giorni nostri trovarsi ancora in una situazione del genere è impensabile. Oggi sappiamo tutto, allora arrivavano poche notizie, provo compassione per il popolo ucraino e spero solo che molto presto possano festeggiare anche loro il giorno della liberazione”.

Foto di Fiammetta Mamoli



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Francesca Costi, giornalista ed organizzatrice di eventi culturali. Amante dell’arte e del teatro, ha fatto delle sue più grandi passioni un lavoro.

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