MARTA BANDIRINI: IL FUMETTO È IL MIO RIFUGIO

Illustratrice, fumettista ed educatrice, il racconto di un percorso intimo e potente, fatto di dubbi, battaglie interiori, riconciliazioni e rinascite


C’è un momento, nella vita di ogni persona creativa, in cui si sente il bisogno di fermarsi. Marta quel momento lo ha attraversato, lasciando il disegno per cinque lunghi anni.

Poi, come succede con le passioni vere, ha ricominciato.

Illustratrice, fumettista ed educatrice, Marta Bandirini ci racconta in questa intervista un percorso intimo e potente fatto di dubbi, battaglie interiori, riconciliazioni e rinascite. Un dialogo che parla alle donne, ma anche a chiunque voglia ascoltare davvero.

Perché il fumetto, a volte, è il nostro modo più autentico di respirare. Il disegno l’ha amato, sposato, lasciato e ora hanno una relazione aperta e felice. Con la forza quieta di chi ha imparato a legittimare le proprie pause, Marta ci ricorda che ogni tratto può essere un atto di libertà.

Marta nasce a Canneto sull’Oglio, in provincia di Mantova, si trasferisce da bambina a Casalmaggiore (Cremona) e, dopo gli studi artistici a Bologna, si sposta a Parma dove vive tuttora.

Partecipa a un concorso per La Revue Dessinée Italia (la versione italiana del giornale indipendente francese di giornalismo a fumetti) dove viene notata dalla giurata Alice Milani e da lì inizia l’avventura del primo fumetto.

Scrive Big Splash nel 2022, il suo graphic novel di debutto, un racconto edito da Becco Giallo editore che, con un brillante mix di ironia e introspezione, narra con efficacia l’amicizia di due trentenni. Isa e Ada vivono lontane e comunicano in maniera intima e schietta tramite lettere, confidandosi sulle pressioni e sulle ansie che vivono quotidianamente.

Due percorsi di vita fatti di progetti, necessità, sfighe e piccole strategie per andare avanti, giorno dopo giorno.

Se dovessi raccontarti a chi non ti ha mai vista né letta, da dove inizieresti? Chi è Marta?

“Marta è una donna che ha scelto di affrontare il proprio desiderio più profondo: fare fumetti. Ha avuto il coraggio di provarci dopo i trent’anni, prendendosi il rischio e il piacere di inseguire una passione coltivata a lungo in silenzio. A 37 anni ha pubblicato il suo primo libro a fumetti, conciliando questa attività con altri lavori necessari per pagare l’affitto.”

Com’è nata la passione per il disegno e i fumetti?

“Leggevo fumetti da ragazzina, ma non ho mai dato loro lo spazio che meritavano. Il disegno mi ha sempre accompagnata, anche se non pensavo potesse diventare un lavoro vero. Ho frequentato l’Accademia di Belle Arti, ma poi ho preso altre strade. Non avevo il coraggio, mi sembrava un mondo troppo distante da me. Solo più avanti ho trovato la forza di dire: “Ci provo. Mal che vada, almeno ci ho provato”. La sicurezza è arrivata dopo, col tempo. Prima ero molto insicura, timida nel mostrare ciò che facevo. Ma si cresce, si cambia, si supera.”

Hai studiato ragioneria, poi l’Accademia di Belle Arti. Due mondi molto diversi. In che modo queste esperienze hanno influenzato il tuo sguardo da fumettista?

“Ragioneria l’ho frequentata più per volontà dei miei genitori che per scelta personale. Appena ho potuto, mi sono iscritta all’Accademia, anche se ero completamente impreparata. Venivo da cinque anni di economia, senza alcuna base tecnica. Mi sono ritrovata in aula insieme a ex liceali artistici, tutti più sciolti, più sicuri. Io ero rigida, con le mani da ragioniera che cercavano di imparare a usare il carboncino. È stata una sfida, ma mi ha insegnato tanto. E anche in questo caso, col tempo e il tanto impegno, mi sono sciolta.”

Da bambina cosa sognavi di fare? Ti immaginavi già nel mondo artistico?

“Da piccola dicevo che volevo fare la ballerina. Il disegno, come per molti bambini, era un linguaggio naturale. Tutti i bambini disegnano, è una forma espressiva spontanea. Poi crescendo c’è chi lo abbandona e chi continua, io ho continuato. Alle medie mi sono accorta che mi dava pace, mi divertiva. Passavo ore a fare i compiti di arte, non per obbligo ma per piacere. Mi piaceva stare da sola a disegnare. Era il mio rifugio. Ricopiavo libri illustrati, osservavo, immaginavo. Il disegno, per me, ha cominciato a diventare qualcosa di più: una consolazione, una forma di presenza.”

Per te cosa significa disegnare? Cosa succede dentro di te quando lo fai?

“Disegnare, per me, significa non essere mai sola. Qualsiasi cosa succeda nella vita, so che posso tornare al mio tavolo, prendere una matita e ritrovare un senso di calma. Il disegno è un rifugio, una boa in mezzo al naufragio. Mi aiuta a riflettere, a osservare, a stare. Mi restituisce benessere, anche se a volte mi fa arrabbiare: quando un disegno non riesce, la frustrazione arriva. Ma è una frustrazione che si consuma in uno spazio sicuro. Sto litigando con un foglio, non con la vita.

Nel disegno c’è anche il tema del controllo: tu crei, ma poi l’opera cammina con le sue gambe. C’è sempre un equilibrio tra il lasciar andare e l’agire. E attraverso questo processo, esplori emozioni, dentro uno spazio protetto, è un modo per conoscersi meglio, senza complicarsi la vita reale.”

Chi sono le donne della tua vita che ti hanno ispirata?

“Mia madre, senza dubbio. Faceva la parrucchiera e preparava le tinte all’henné senza guanti. Le sue mani erano sempre sporche di colore. Per me, da bambina, il lavoro era questo: mani macchiate di rosso, di arancio, di nero e tanta dedizione. E quel contatto diretto con la materia, con il colore, ha inciso dentro di me. Mia madre è stata una grande ispirazione, con la sua forza concreta e il tanto impegno.”

Nel tuo libro Big Splash parli di ansia, precarietà, desideri non realizzati. Quanto è difficile per te mostrarti vulnerabile nel lavoro creativo?

“È faticoso. Essere vulnerabili è necessario per raccontare qualcosa di autentico, ma va fatto con cura. La vulnerabilità è come un canale da tenere pulito, da mantenere. Se vuoi che ciò che scrivi e disegni sia vero, devi esporti, ma non puoi svenderti, devi proteggerti. Serve equilibrio: offrire qualcosa di autentico a chi legge, senza perdere la propria integrità. La sicurezza interiore è fondamentale per far nascere pensieri profondi, se ti senti al sicuro, puoi generare riflessioni vere. Big Splash parla di ansia e di maternità, temi delicati, intimi. Per affrontarli, serve un ambiente protetto, solo così si può dire davvero qualcosa.”

Proprio a proposito di questi temi, cosa significa per te “il politico nell’intimo”?

“Quando in Big Splash parlo di maternità e di vissuto personale, mi sono resa conto di quanto quelle esperienze siano condivise da moltissime altre donne.  È emblematico, per esempio, che in Italia la maternità venga considerata un bene pubblico. Di conseguenza, anche il mio corpo diventa una questione pubblica: devo giustificare a qualcuno — non so nemmeno chi — se desidero o meno avere figli. Diventa una pressione costante, una questione profondamente politica.”

Il famoso “orologio biologico”…

“Ma io mi chiedo: lo sentiremmo davvero tutte, questo orologio, se non ci fosse un’insistenza esterna così forte sul dover fare figli? Certo, biologicamente esiste una finestra temporale, ma su questo fatto naturale viene costruita una narrazione potente, ossessiva, ansiogena. Per me è stato fondamentale legittimare l’idea che la maternità non sia un passaggio obbligato. Anche se, nella cultura comune, essere donna e diventare madre sono concetti quasi indissolubili.

Poi c’è tutta la questione sulla Legge 194, sull’aborto… ma lì si aprirebbe un altro capitolo infinito, quindi mi fermo. Quello che voglio dire è che le nostre scelte — anche quando sembrano intime, personali, solo nostre — sono inevitabilmente politiche. Perché non le viviamo mai davvero da sole: toccano tutte, in modi simili. Per questo, raccontare ciò che viviamo ci permette di riconoscerci l’una nell’altra, di sentirci meno sole.”

Il mondo del fumetto è ancora, in parte, un ambiente ad appannaggio maschile. In questo senso, che esperienza hai avuto nel tuo percorso? Hai dovuto sgomitare per trovare spazio o credibilità?

“Nel mio caso specifico no, nel senso che quando ero pronta mi sono mossa. La persona che mi ha un po’ scoperta è stata Alice Milani, quindi una donna, forse anche per questo non ho trovato particolari difficoltà. Però storicamente, il fumetto è un ambiente fortemente maschilista, che non ha lasciato spazio a narrazioni differenti da quella dell’uomo e al racconto iper-stereotipato, caricaturale, della donna. Le donne che disegnano sono ancora relativamente poche, ma stanno prendendo sempre più spazio, soprattutto negli ultimi 10-20 anni. Questo ha aperto scenari nuovi, più inclusivi, che permettono a molte persone di esprimersi.

Oggi molte fumettiste donne e queer sono battagliere, si fanno sentire, creano fermento e dibattito e l’ambiente è molto più dinamico. A questo proposito, c’è anche un collettivo per la parità di genere che si chiama Moleste, che si occupa proprio delle discriminazioni di genere nel fumetto.”

Hai citato Alice Milani, cosa significa per una fumettista avere finalmente una “chiamata”?

“È di fondamentale importanza. Avevo partecipato a un concorso per La Revue Dessinée Italia — una rivista trimestrale di giornalismo a fumetti — e Alice era in giuria. Non ho vinto, ma le sono piaciuta, e mi ha chiesto se avevo qualcosa da proporle. Stavo già lavorando sulle due amiche di Big Splash, che ai tempi apparivano solo sul mio blog, a puntate, a lei è piaciuta l’idea, e abbiamo iniziato a lavorarci.”

Quando inizi a scrivere una storia, da cosa parti? Una frase, un’immagine, un dialogo, un’emozione?

In linea di massima non ti saprei dire, è una magia. Io parto dal bisogno di analizzare un pensiero, qualcosa che mi pesa. Poi vedo che spesso trova eco nelle ragazze attorno a me, e mi piace raccontare ciò che ci riguarda. Diciamo che parto dalla scrittura. A volte da un dialogo, altre volte da un pensiero che voglio sviluppare. Altri autori partono da un disegno, da un’intuizione visiva che poi fa da guida. Io, di solito, vado al contrario, ma non escludo che in un futuro possa capitare di cominciare da altro.”

C’è stato un momento in cui hai sentito di “non farcela” e che avresti mollato tutto?

“Sì. In passato ho mollato. Dopo l’Accademia di Belle Arti ho fatto un’altra scuola di disegno, che nella mia testa doveva aiutarmi a trovare coraggio. Invece mi ha un po’ demotivata.

I vent’anni per me sono stati anni confusi, mi impegnavo ma mi sentivo persa. Molto insicura.  Dai 27 ai 32 anni non ho disegnato, con grandissimo dolore. Pensavo di aver preso un abbaglio. Così ho iniziato a lavorare come educatrice.

Poi, a 32 anni, mi sono detta: se non ci riprovo, diventerò una di quelle persone piene di rimpianti. Così ho ricominciato, pur con la paura fortissima di fallire. Dopo 5 anni di stacco avevo dimenticato tanto, ma ho ripreso le matite in mano. Recentemente mi è capitato di nuovo di dover mettere tutto in standby, ma senza smettere di disegnare.”

Vivi a Parma, sei un’educatrice e fai fumetti. Una vita di incastro. La precarietà ti ha resa più lucida o più arrabbiata nei tuoi racconti?

“Entrambe le cose. La rabbia e la lucidità mi tengono viva, e giovane.”

Cosa ne pensi di questa epoca iper-digitalizzata e delle AI? Tu le utilizzi?

“Personalmente non le uso. Ma non penso che le intelligenze artificiali siano un male in sé. Il punto è normarle. Oggi le AI si cibano del lavoro altrui senza consenso, e questa è la vera stortura. Ciò che infastidisce è che si tratti, di fatto, di un furto. In ambito creativo i diritti delle immagini, delle idee, devono essere tutelati. Finché non lo sono, l’AI rimane un problema.”

Che mondo vorresti lasciare, anche solo con una matita, a chi verrà dopo, per chi ti legge?

“Un mondo di sospiri liberatori. Fumetti che facciano tirare il fiato, anche solo per un secondo, in momenti di tensione o preoccupazione. Regalare un sollievo, come una piccola medicina.”

Se potessi lasciare un messaggio in una bottiglia per tutte le ragazze che vogliano intraprendere la tua professione e magari pensano di non riuscire, cosa scriveresti?

“Datevi tempo e siate gentili con voi stesse. Non è detto che i vostri tempi siano quelli degli altri. Seguite il vostro filo. Ognuna sboccia quando vuole, quando se la sente. Abbiate pazienza.”

Per concludere, quali sono i tuoi progetti futuri? Hai qualcosa in cantiere?

“Sì, ho un progetto per il futuro… ma sono scaramantica. Ne riparleremo più avanti”.

 

Contatti:

Blog: www.martabandirini.myportfolio.com

Instagram: Marta Bandirini (@marta_bandirini) • Foto e video di Instagram

 

WRITTEN BY

Cecilia Vecchi, si occupa di comunicazione, è content writer e gestisce progetti audiovisivi. Si divide tra Italia e Spagna. Da sempre ama viaggiare perché partire è la più bella e coraggiosa di tutte le azioni, odora di libertà, vuol dire conoscere e scoprire, vedere nuovi posti per tornare con nuovi occhi. Anche scrivere è viaggiare: un’evasione senza l’ansia degli orari e il disturbo dei bagagli. Per Parmaforwomen cura la rubrica Donne in viaggio


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